Erano passate da poco le cinque del mattino quando il 16 ottobre 1943, centinaia di SS (365 per l’esattezza) fecero irruzione nel ghetto di Roma, invasero il Portico d’Ottavia e le strade adiacenti approfittando della giornata di festa per gli ebrei, (era Sabato e si festeggiava Lo Shabbat, la giornata di riposo settimanale che inizia il venerdì sera e finisce il sabato sera un’ora dopo il tramonto del sole, però quel sabato era anche il terzo giorno della festa di Sukkot o Festa delle Capanne, quasi una doppia festività per la comunità ebraica), li sorpresero nelle loro case, nei loro letti, e arrestarono 1259 persone. I nazisti non fecero alcuna distinzione tra uomini, donne (anche quelle che erano in stato interessante), ragazzi, bambini, lattanti e nemmeno tra persone sane e persone malate o incapaci di camminare. Tutti coloro di religione ebraica che venivano trovati furono prelevati. Due giorni dopo, liberati quelli che risultarono figli o coniugi di matrimonio misto, stranieri e inquilini non Ebrei, più di mille persone di religione ebraica furono fatte salire su di una ventina di vagoni piombati alla stazione di Roma Tiburtina e inviati in Polonia ad Auschwitz dove arrivarono cinque giorni dopo (il 22 ottobre).
Nel sito web di Sergio lepri www.sergiolepri.it si legge “… lunedì 18, all’alba, i prigionieri saranno fatti salire su autocarri e condotti allo scalo merci della stazione di Roma-Tiburtina, dove verranno caricati su un convoglio di 18 carri bestiame (65-75 su ogni carro). Il treno per tutta la mattina rimarrà su un binario morto e una ventina di tedeschi armati impediranno a chiunque di avvicinarsi. Ricorda Mario Limentani (Corriere della Sera del 16 ottobre 2003): “Eravamo ammassati dentro il carro, quando ci accorgemmo che la porta era socchiusa. Qualcuno l’aveva riaperta, dopo che i tedeschi l’avevano sprangata e piombata. Non sapevamo che fare. Eravamo incerti. Uscire poteva essere pericoloso. Restammo. Arrivammo poi a Bologna con quella porta ancora aperta. Lì i tedeschi se ne accorsero e la chiusero brutalmente con una manetta”. Il giorno stesso finirono quasi tutti nelle camere a gas e poi nei forni crematori.
Degli ebrei deportati quel “sabato nero” tornarono a casa solo in 17. Nessuno degli oltre duecento bambini catturati riuscì a salvarsi. In una sua pubblicazione lo scrittore Calimani afferma: La tragedia della deportazione degli ebrei romani restò senza eco anche sui giornali ufficiali italiani. Alla retata non seguì alcuna reazione né alcuno cercò o poté tentare di fermare quel treno della morte. Alla razzia non partecipò la polizia italiana, forse perché i nazisti non si fidavano troppo, ma dal 16 ottobre 1943 al giugno 1944 furono arrestati, in seguito a delazioni e tradimenti, almeno altri 835 ebrei romani in gran parte a opera della polizia italiana. I nazisti avevano offerto ricompense che, dati i tempi, qualcuno pensò bene di incassare”
In un altro testo G. Benedetti scrive “Nei giorni precedenti la razzia, i tedeschi avevano a lungo frequentato gli uffici dell’Annona, rovistando schedari e facendo rilievi, col pretesto dell’imminente distribuzione delle nuove tessere alimentari. Sarebbero venuti di lì gli elenchi? Ma sulle carte annonarie nessuno ha mai visto annotazioni razziali, e i tedeschi avrebbero quindi dovuto fare lunghi e scomodi raffronti coi loro prontuari di cognomi ebraici. Un suo conoscente, impiegato all’Anagrafe, aveva confidato giorni prima che si erano dovuti ammazzare di lavoro per certi elenchi di ebrei, che bisognava approntare per i tedeschi. A tal proposito è bene ricordare che già all’inizio dell’estate del 1938 il Ministero dell’Interno decideva di trasformare il proprio ufficio demografico, in “Direzione Generale per la Demografia e la Razza” (chiamato con l’acronimo Demorazza). Lo scopo era quello di controllare e gestire capillarmente e con metodo il sistema persecutorio nei confronti degli Ebrei. Il primo atto fu quello di stilare un elenco di tutte gli individui di religione ebraica presenti a Roma e sul territorio nazionale. Tale elenco che riportava dettagliatamente ogni tipo di informazione sul nominativo censito servì con molta probabilità ai tedeschi per attuare la razzia del Ghetto.
Nei giorni che precedettero l’irruzione tedesca all’interno del Ghetto, il maggiore Kappler, comandante della Gestapo di Roma, intima alla Comunità Israelitica di consegnare 50 chilogrammi d’oro. Ecco come andarono le cose: domenica 26 settembre 1943 le autorità di Pubblica Sicurezza convocarono nel tardo pomeriggio presso l’Ambasciata Tedesca, Ugo Foà e Dante Almansi, presidenti rispettivamente della Comunità Israelitica di Roma e delle Comunità Israelitiche Italiane. Li ricevette in maniera squisitamente cortese il Maggiore delle SS Herbert Kappler. Dopo poco la conversazione che fino a quel momento si era incentrata su argomenti di poca importanza, il tono del Maggiore cambiò accusando gli ebrei di colpa doppia, come traditori in quanto Italiani e come nemici della Germania in quanto Ebrei. Il Governo del Reich pretendeva un tributo di 50 KG di oro da versarsi entro trentasei ore da quel momento. In caso contrario duecento ebrei sarebbero stati catturati e deportati. I rappresentanti delle Comunità fecero notare che la richiesta era impossibile da soddisfare e chiesero o una riduzione dei chilogrammi o se potevano sostituire l’oro con lire italiane. Kappler rispose che se il Reich avesse avuto bisogno di banconote poteva tranquillamente stamparle, avrebbero dovuto trovare l’oro, tutto, neanche un grammo in meno e congedò i due. La notizia dell’assurda richiesta fece il giro di Roma e l’oro (che, per la precisione, risultò essere kg 50,3) fu trovato con il contributo anche di cittadini non ebrei e consegnato ai nazisti martedì 28 settembre (per dovere di cronaca anche il Vaticano propose il suo aiuto alla Comunità offrendo 15 chilogrammi di oro qualora ci fosse stato bisogno di completare la cifra). I giorni che seguirono alla consegna dell’oro, salvo la perquisizione dei locali del Tempio Maggiore e il prelevamento di quasi tutti i volumi preziosi della biblioteca della Sinagoga, per gli ebrei la vita era tornata alla normalità e nessuno sospettava quello che di lì a pochi giorni sarebbe avvenuto con il rastrellamento del ghetto di Roma.
Delle 1024 persone che furono deportate il 16 ottobre 1943 solo in 16 tornarono e dei 207 tra bambini e bambine non vi furono sopravvissuti.
(estratti dalla pubblicazione di A. Orlando, “Mamma perché non abbiamo più la radio?” – In fuga attraverso l’Italia delle leggi razziali, Ed. Atelier Pistoia 2015, pagg. 123 – i riferimenti alle note dei testi consultati sono reperibili in calce alla pubblicazione)