L’aveva messo in caratello l’anno della nascita della figlia, a dicembre, insieme a ‘Furio del Nanni’, un amico di vecchia data. Avevano vendemmiato e stesa l’uva sui cannicci su, nella soffitta areata vicino alle casse delle mele. Poi nei tre mesi seguenti ogni settimana l’avevano “spippolata” dagli acini avvizziti e malati. Era colombano, trebbiano, malvasia. Poi avevano cercato la madre da un vecchio contadino vinsantaio e c’era voluta tutta la pazienza e la capacità di convincimento possibile per farsela dare. Una settimana prima di Natale avevano preso lo strettoio, tirato fuori da un angolo del magazzino, e dopo aver strizzato ben bene quei chicchi appassiti, avevano versato il mosto nel caratello marsalato comprato da un pasticciere. Il caratello, prima l’avevano zolfato per le muffe e poi, ripulito, riempito dolcemente con la “madre” e sistemato su due legni convessi e cementato. Era come se avessero compiuto un rito sacrale. Il mosto, a contatto con la madre aveva fermentato per una ventina di giorni. Marcello la sera ascoltava per qualche minuto quel rumore di bollitura sommesso, “blop, blop, blop” quasi una sinfonia a presagire la nascita di un grande Vin Santo, un’opera d’arte insomma. Tre anni dopo, finalmente, verso gennaio aprirono il caratello togliendo il salcio e facendo sgorgare quel liquido ambrato lentamente come a seguire un rito atavico, vecchio di secoli. Poi ci fu la chiusura delle bordolesi di vetro verde scuro, “cellette” d’alveare vuote da riempire, riciclate da baldorie vicine e lontane, qualcuna portava ancora l’etichetta di qualche cantina, tutte accuratamente lavate e asciugate, pronte per ricevere quel nettare divino, frutto di tanta fatica. Il risultato sarebbe stato foriero di un grande orgoglio e di tanti futuri complimenti. Così fu e una dopo l’altra le bottiglie, che non erano risultate poi tante, vennero bevute, consumate durante le feste e le occasioni importanti, finché non rimase che l’ultima, quella che Marcello non aveva mai avuto il coraggio di aprire. Le occasioni sarebbero state molte per dar fondo nel corso degli anni a quell’ultima ambrosia: la macchina nuova, l’aumento di stipendio, i parenti arrivati dalla lontana Argentina, la riuscita di un’operazione chirurgica complicata della moglie, la sua Gina. Nemmeno quando la figlia si laureò col massimo dei voti quella bordolese fu stappata. L’uomo aveva resistito sempre alla tentazione, e si che quel Vin Santo era buono, il colore ambrato del miele di castagno, né troppo dolce, né troppo secco, sapeva di frutta e di legni pregiati, il retrogusto intenso, l’odore delicato della mammola. Che spettacolo! Per non essere sedotto dal desiderio e a scanso di qualsiasi tentazione aveva pensato bene di mettere una bella etichetta sulla parte larga della bottiglia, proprio vicino al collo: “Vin Santo del mio” e più sotto un bell’ “Attenzione questo vino non si tocca fino al matrimonio dell’Elide”. Quell’avvertimento fungeva, se non proprio da filo spinato, da confine, un confine immaginario tra il desiderio di aprire quella bottiglia e il pensiero sul futuro della figlia. L’aveva posizionata in bella vista nella cantinetta, insieme ad altri preziosi cimeli, però nell’ultimo scaffale vicino ai Brunelli e ai Cognàc, irraggiungibile, quasi a proteggerla dalle brame e dai rapaci appetiti del mondo esterno. Ogni volta che Marcello varcava la soglia della cantina, buttava l’occhio in alto, a quella bottiglia. Durante la salatura del rigatino o quando doveva ungere le forme del pecorino, durante l’infiascatura del vino o quando sistemava i vasetti della conserva e delle marmellate. Perfino quando sistemava il rosso di Montalcino o il Nobile di Montepulciano che erano veramente “tanta roba”, guardava la bordolese e sospirava. Insomma alla vista di quel vetro i pensieri nella testa dell’uomo si fondevano e vagavano sospinti da incontrollabili fantasie. Chissà come sarà bella la mia bambina quel giorno, chissà cosa sarà diventata, chissà cosa le riserverà il futuro, chissà tra quando, chissà come, chissà perché e giù pensieri a non finire. Gli anni passavano e la bottiglia era sempre al suo posto, con la sua bella polvere, i suoi schizzi di bianco di calce dell’ultima imbiancatura e il suo “turino” di sughero appoggiato, senza forzare, giusto perché non entrasse aria, tanto quel vino era bello liquoroso, i gradi c’erano e non avrebbe perso qualità, anzi si sarebbe affinato. Gli anni passarono e la figlia, dalla bella bambina che era, si era fatta una bellissima donna e come tutte le bellissime donne aveva trovato il fidanzato, un bravo ragazzo, serio e posato, senza tanti fronzoli per la testa. Seria lei, serio lui, un bel giorno decisero di sposarsi e fissarono la data delle nozze. Passarono i mesi, poi i giorni, poi le ore e finalmente arrivò il momento tanto atteso. In Chiesa anche il prete, che conosceva i due ragazzi fin da bambini, si era commosso. Finita la cerimonia ci fu il lancio del riso, le foto, i baci, gli abbracci, le lacrime di gioia fino a quando, finalmente, tutti si avviarono verso il luogo concordato per il rinfresco. Marcello, la sera prima, aveva preso dalla cantinetta la sua bottiglia come se avesse seguito le fasi di un rito, l’aveva tenuta ritta senza agitarla per non fare intorbidire il soave contenuto e poi l’aveva portata nelle cucine di coloro che stavano preparando per la festa programmata da lì a poche ore. Chiamato il responsabile di sala si era raccomandato di tenerla al buio e, vista la stagione, in un luogo fresco, di non scuoterla, insomma di curarla come se si trattasse di una bambina appena nata. Quella del matrimonio era stata una giornata calda, di quel caldo agostano che lascia fiaccati senza possibilità di recupero. Tutti erano spossati, in maniera particolare i familiari stretti, un po’ per l’afa, ma anche per aver trascorso i giorni precedenti nei preparativi frenetici dell’evento. Finalmente tutti sedettero e iniziarono a gustare le squisitezze che i cuochi avevano sfornato per l’occasione. Mangia, bevi, parla, ridi, canta, brinda, balla, tutto si svolse in maniera canonica, come il Cielo comanda e dulcis in fundo si arrivò alla torta. Era quello il momento che Marcello aspettava per tirar fuori la famosa bottiglia e così fece. Tenendola stretta in mano e con gli occhi che tradivano una grande emozione, spiegò ai presenti la storia di quel vino, ma quelli sembrava lo ascoltassero per rispetto al suo ruolo e non per quello che diceva, era pur sempre il padre della sposa. Dei commensali al tavolo solo due amici apprezzarono quel vino, i parenti stretti rifiutarono la mescita adducendo a chimeriche scusanti. Chi diceva che non beveva alcolici quando si era tracannato una bottiglia intera di bianchetto, chi spiegava che nello stomaco non ci sarebbe entrato neanche uno spillo quando aveva il piatto stracolmo di millefoglie e di gelato, chi faceva finta di non aver capito bene e continuava a gozzovigliare, chi invece, ed era veramente mortificante, senza alcun motivo plausibile rifiutò seccamente la mescita guardando la bottiglia come se contenesse del cianuro. Persino la moglie, dopo averne assaggiato un sorso, rispose al “Com’è?” dell’uomo con uno svogliato e laconico “Bonino” strascicando la “o” finale e continuando a parlare con il vicino di tavolo come se niente fosse. E sì che la Gina, quella santa donna, sapeva bene quanto il marito tenesse a quella bottiglia. Allora l’uomo si alzò con la bordolese verde in mano e si avviò deciso al tavolo degli sposi. Quando se lo vide davanti la figlia lo abbracciò sorridendo e il genero alzò il bicchiere chiedendone un goccio, non c’era stato bisogno di spiegazioni con loro, loro conoscevano l’importanza di quella bottiglia, declamata negli anni e più volte ricordata. Il giorno dopo, finite le feste, gli sposini novelli partirono per il viaggio di nozze e la sera stessa l’uomo scese in cantina per sistemare certi vasetti che dovevano essere pronti per l’inverno. Quando aprì la porta, come sempre, guardò in alto dove per tanti anni era stata collocata la bottiglia e non vedendola ricordò i decenni trascorsi a fantasticare il giorno della sua apertura, ora quel giorno era già passato, un po’ come la vita e il tempo che fuggono inesorabili verso mete sempre diverse, fini prestabiliti che, raggiunti, si consumano in un momento e diventano solo l’epilogo di un percorso che ha lasciato il segno, che ha riempito una parte importante della tua esistenza. Si rese conto che quella bottiglia era stata, insieme a tante altre cose, il mezzo che lo aveva aiutato a costruire nella sua mente un traguardo importante, un percorso fatto di sogni, di sacrifici, di gioie, di dolori e di momenti felici passati in seno alla famiglia mentre la figlia cresceva e diventava donna. Ogni volta che negli anni era sceso in cantina, quella bottiglia gli aveva ricordato qualcosa di importante, il concretizzarsi di un sogno, la figlia sistemata e felice. Marcello guardava il caratello vuoto e mentre lo guardava scorse qualcosa dietro di esso, nell’angolo vicino alla damigiana dell’olio. Era un’altra bottiglia, una di quelle riempite tanto tempo prima di Vin Santo, all’apertura del caratello. Quella bottiglia era scampata, unica superstite nel corso degli anni, ai bagordi e non si sa per quale ragione non era stata sistemata al suo posto e quindi stappata e bevuta come le altre. Marcello la prese con delicatezza materna e la pulì dalla polvere e dalle ragnatele “Chissà forse è un segno del destino, altro giro altra corsa, questa si apre quando quei ragazzi avranno voglia di darmi un nipote” pensò e ci schiaffò sopra una bella etichetta con su scritto –ATTENZIONE NON TOCCARE – e poco più sotto con un bel frego di sottolineatura – “Questa s’apre solo alla nascita del nipote…e che sia maschio!”
Alessandro Orlando
Bravo: sei ripartito alla grande!!! Assaggiando il vinsanto che mi hai regalato, penserò a questo superbo racconto
Mi sembra un film di Pupi Avati. Bravo.
Caro Alessandro, io e le mie due figlie, in occasione dei nostri tre matrimoni, abbiamo aperto bottiglie di Vino Santo prodotto nell’anno di nascita di tutti e tre.
Tutto dovuto alla passione e all’amore per il Vino Santo che mio nonno e mio zio, contadini mezzadri, hanno avuto fino a quando hanno potuto farlo. Con il tuo splendido brano mi hai fatto rivivere momenti e sensazioni che avevo completamente rimosso, grazie e complimenti.