Di Mario Soldati oggi non si sente parlare molto, peccato, perché è stato un personaggio assai poliedrico, dai molteplici interessi, letterari, musicali, storici, geografici, anzi si potrebbe definirlo un uomo estremamente “curioso”. Aveva il dono di scrivere o condurre programmi televisivi o realizzare dei film per dare “felicità”. Così infatti diceva di lui Leonardo Sciascia ma era anche una sensazione reciproca. Si stimavano, si volevano bene, anche perché c’era un’altra cosa che li accomunava, entrambi non solo amavano il giallo, il poliziesco ma ne avevano scritto con grande soddisfazione dei loro lettori. Un critico di grande levatura come Cesare Garboli diceva che in molti dei suoi scritti Soldati arrivava sempre a “sfiorare” il giallo e lo stesso si potrebbe dire per Leonardo Sciascia. La letteratura gialla è un qualcosa di connaturato in loro perché hanno scritto una serie di “Gialli d’autore”, andando oltre la vicenda di per sé stessa, e specie nel caso di Sciascia hanno affrontato tutti gli aspetti umani, politici, sociali, storici del nostro Paese. Più variegata e sconfinata la produzione dell’autore torinese, più difficile anche poterla considerare come insieme perché stranamente manca una Opera Omnia che raccoglie questa sterminata produzione, forse si è partiti dall’assunto che per Soldati bastava un piccolo assaggio per considerarlo in tutta la sua grandezza. Soldati/Sciascia fanno parte di due generazioni del’900: Soldati nasce ai primi del secolo e quindi attraversa la stagione del fascismo, mentre Sciascia fa parte di coloro che sono nati negli anni ’20 e quindi la loro formazione rientra nel periodo che attraversa la seconda guerra mondiale. Soldati è definito scrittore amabile, godibile, lui non ha paura di essere preso per un confezionatore di guide eno-gastronomiche e di consigli di viaggi. Se Sciascia con “Il giorno della civetta” affronta una serie di capitoli dove si ripercorre la storia del nostro Paese con la storia delle mafie, la storia delle ideologie, delle inadeguatezze, dei ricatti, Soldati con “Vino al Vino” ci presenta un capolavoro, ma molti non capiscono perché lui anziché affrontare i temi socio-politici che avvelenano il Paese si limiti a una letteratura frivola e non certo impegnata. Ma Soldati che pur si candidò nel PSI con Craxi preferiva limitare la fede politica al suo privato e raggiungere l’immaginario collettivo con una serie di proposte che andavano dalle sue regie televisive ai servizi giornalistici ai romanzi e tutto quanto gli serviva per “cantare” l’Italia con i suoi costumi, i suoi cibi, i suoi vini, le sue trattorie, i suoi borghi, le sue tradizioni, e sarebbe molto riduttivo classificare questo come “Italia minore”. Mario Soldati era anche un ottimo scrittore, nel 1970 con il romanzo “L’Attore” vinse il Premio Campiello. Ma di lui vogliamo ricordare anche altri libri, “America”, “Primo amore”, “Lettere da Capri”, “La Messa dei Villeggianti “che è una raccolta di racconti, “L’avventura in Valtellina”. Soldati compì una serie di viaggi attraverso l’Italia degli anni Sessanta e primi anni Settanta riferendone nei suoi libri e nelle sue inchieste televisive. Fu una sorta di addio a una certa Italia che andava scomparendo, del resto lo fece lui stesso stabilendosi a Tellaro. Un’Italia la sua rozza, ruspante, ma genuina, e certo diversa da quella della civiltà dei consumi che andava profilandosi all’orizzonte, l’Italia dalle varie etichette doc. Il nostro era contrario alla scomparsa delle bottiglie comuni di certi vini e liquori che erano la prerogativa del Bel Paese. Bello il paragone che fa tra la scomparsa dei prodotti genuini e la scomparsa nei campi delle lucciole. Ne scrisse qualche anno dopo Pier Paolo Pasolini. Nel 1955 Soldati scriveva e consigliava a chi voleva conoscere l’Italia di scoprirla per conto proprio, in quanto tutto quanto è pubblicizzato vale molto meno di ciò che è ignoto, nascosto, protetto. E qui faceva un grande elogio alle bottiglie senza etichetta e al vino nuovo assai più buoni delle bottiglie etichettate. Ammetteva che all’estero ciò non avveniva ma là c’era una civiltà ben organizzata, con una simbiosi tra società e individuo. Da noi non avviene, c’è più anarchia, più individualismo, più voglia di farsi valere in solitudine o per pochi amici. Un Soldati quindi scrittore “popolare” ma nel senso nobile del termine e quindi molto amaro, oggi si fa meno fatica a definirlo un anarchico, uno scontroso, un ribelle. Di Soldati si è detto che è stato “troppo popolare”, ma non crediamo sia stata una colpa l’essere troppo amato, il suo rapporto con lettori e telespettatori funzionava. Oggi, stranamente, si parla poco di lui, meriterebbe di essere ricordato di più. Uno dei dogmi per cui si batté Pirandello fu il rapporto “verità-finzione”, il grande autore siciliano soleva dire “La vita o la si vive o la si scrive”, ma Soldati sicuramente non fu di questa idea, lui la vita la viveva e la scriveva. Di questo avviso fu anche Sciascia che certamente aveva un altro modo di scrivere, lui cercava e indicava le ferite della società, mettendo sotto accusa le incapacità dello Stato, i soprusi della mafia, le inefficienze della magistratura e della Chiesa. Soldati invece non arriva a scrivere di queste cose, pur vedendole e vivendole, non ha partecipato alle tante dispute e discussioni né vi si è fatto coinvolgere a differenza di Sciascia. Ecco forse questo distacco di Sciascia dai problemi socio-politici lo ha posto in una condizione diversa che evidentemente non…eccitava nessuno. Uno scrittore colto, affabile, cortese, divertente, un ottimo intrattenitore, una grande capacità nel far parlare le persone, lui vuole informare il lettore ma non lo vuole intristire, lo vuol semmai far riflettere su certi personaggi e magari far sì che vengano conosciuti e accettati. Un Soldati quindi abbastanza anomalo nel nostro panorama letterario dove molti hanno assunto il ruolo di maestri o di predicatori. Lui non cerca di convincere nessuno, lui semplicemente si fa apprezzare per gli argomenti che tratta e per come ce li presenta, cerca di rendere simpatici i suoi interlocutori e di farli conoscere. Personaggi che non saranno tra i grandi della Storia, ma che sono reali e profondamente umani. E del resto basta vedere quale sia stato il suo approccio alla letteratura gialla. Scrisse “I Racconti del maresciallo”, qui lui compare in prima persona nelle vesti di intervistatore di un maresciallo dei carabinieri, in realtà sono amici e mentre pranzano insieme il carabiniere gli racconta delle storie. Ecco il giallo inserito in un consesso di amicizia e di familiarità, due persone si fanno compagnia a tavola e parlano, anzi uno racconta, ma non si pigia mai sul pedale del terrore e dell’horror. Sono storie sempre legate alla letteratura poliziesca, centrate sulla figura di un maresciallo, Gino Arnaudi, piemontese di origine ma che opera in Lombardia. Sono storie di piccola criminalità, di malaffare, di violenza su cui il nostro Arnaudi indaga. Una sorta di antieroe che se deve arrestare un criminale (forse è una parola grossa…) lo fa malvolentieri, cerca sempre di sfumare i toni, è la persona che gli interessa, non il male effettuato. Una curiosità, Soldati e il suo ospite siedono sempre al tavolo di una trattoria o pranzano nel vagone-ristorante di un treno.
Tra il 1968 e il 1984 due adattamenti televisivi tratti dai racconti di Soldati, che ha anche diretto il primo trasmesso in televisione, con protagonista nei panni del maresciallo Turi Ferro, il secondo in forma di miniserie televisiva è stato diretto dal figlio dello scrittore, Giovanni, con un nuovo protagonista, Arnoldo Foà.
Giuseppe Previti