Non amo le ricorrenze e le commemorazioni di fatti e avvenimenti che in qualche modo vengano ricordati in maniera prestabilita. Ecco perché, pur riconoscendo la rilevanza storica o sociale nell’istituire un giorno del calendario che ricordi qualcosa di importante, credo sia necessario soprattutto agire e commemorare senza essere legati ad una data precisa. Potrei parlare della Shoah in agosto e non solo il 27 gennaio, della bomba su Hiroshima in ottobre e non il 6 agosto, della violenza contro le donne non il 25 novembre ma oggi, come ho fatto col racconto che segue. Questo perché l’etica legata al vivere civile e all’individuazione dei germi del male e al loro isolamento non si esaurisce stabilendo una data del calendario come purtroppo spesso avviene, ma sempre, ogni ora del giorno e ogni giorno dell’anno.
Questo mio racconto è stato pubblicato in un’antologia dal titolo “Il tacco spezzato” (Ed. Atelier Pistoia 2013) dove l’Editore ha voluto affrontare il doloroso tema della violenza sulle donne, attraverso interviste e racconti.
IL GIOCO DEL SILENZIO
Luisa guardò l’orologio sulla parete della cucina, segnava le sei, ancora un paio d’ore e lui sarebbe tornato, come sempre dolcissimo, con le pizze calde fumanti, appena sfornate. L’avrebbe baciata e avrebbe fatto una carezza al bambino. L’uomo dopo cena si sarebbe fatto una doccia, avrebbe acceso il computer e poi, letta la posta e risposto alle mail, le avrebbe chiesto di fare l’amore. Sogni, solo sogni, oppure un rimpianto per i primi anni di matrimonio. Luisa aveva paura, sapeva che quella sera, come sempre, sarebbe stato diverso, l’uomo l’avrebbe picchiata, erano ormai passati troppi giorni dall’ultima volta che l’aveva fatto, troppi giorni che lui non dava sfogo alla sua rabbia, la tensione era salita di ora in ora, di giorno in giorno, la casa ne era satura. Bastava un nulla per farlo scattare. Le prime volte era diverso, lui si era limitato alle parolacce, agli insulti, a piccole cattiverie a continue umiliazioni, come disfare il letto fatto perché le lenzuola non erano tirate a dovere, versare nell’acquaio la colazione perché il latte non era stato sufficientemente scaldato oppure, una cosa che la feriva in maniera straziante e insopportabile era quella di non rivolgerle la parola per intere giornate, il “Gioco del silenzio” come lo chiamava lui. “Ecco a questo punto non rimane che il gioco del silenzio, così almeno la prossima volta te ne ricorderai” diceva sibilando e la guardava con un ghigno, quasi un sorriso mal riuscito e negli occhi un odio incomprensibile. Col tempo si era convinta che probabilmente aveva anche ragione, forse il problema di tutto era veramente lei che non si comportava come doveva nei confronti dell’uomo. Poi col seguire dei mesi arrivarono anche gli schiaffi e i pugni. Quello che le dava più dolore non era tanto il male fisico, ma i segni sul volto che doveva giustificare continuamente con i parenti, gli amici, i colleghi di lavoro. I primi tempi Luisa aveva anche tentato di difendersi, ma come alzava un braccio i pugni raddoppiavano ed erano più forti di prima, o almeno così a lei sembrava. O forse lo erano sempre stati. Così smise di proteggersi, si rassegnò, l’importante era riuscire a schivare i colpi, aveva imparato a tenersi la testa tra le mani, i gomiti sulle ginocchia, piegata con la faccia che toccava il pavimento, così almeno non rimanevano segni evidenti e l’uomo poteva sfogare la sua rabbia sulla schiena e dare qualche calcio sulle gambe. Ultimamente lui, aveva cambiato le motivazioni delle sue brutalità, tutto ruotava intorno alle sue voglie sessuali. Luisa si concedeva come un automa, fino a soddisfare l’uomo passivamente, con ribrezzo ed era diventata una tortura. Qualche volta aveva detto di no ed erano stati schiaffi e pugni, scenate, urla, bestemmie, ormai anche il condominio ci aveva fatto l’abitudine. I primi tempi alcuni inquilini telefonavano o suonavano il campanello per sapere cosa stava succedendo, poi tutto era diventato normale anche per loro. Tutto, col tempo, diventa normale. Luisa continuò a guardare l’orologio della cucina e vide passare come in una pellicola di un vecchio film in bianco e nero gli anni vissuti insieme a lui che aveva tanto amato e che le aveva dato quel meraviglioso bambino. Adesso era dai nonni e sicuramente stava facendo i compiti. Già, il bambino, sempre più spesso veniva mandato dai genitori di lei. “Povero amore mio” pensava. L’uomo, quasi percepisse un vago senso di pudore, cercava di evitare le violenze in sua presenza, aspettava il momento propizio, strizzando l’occhio quando lui non vedeva oppure sibilandole minacce e insulti quando era sicuro che il bambino non sentisse. “Almeno quello. – pensò – Basto io a soffrire”. Se lui avesse toccato il piccolo avrebbe tirato fuori le unghie, si sarebbe fatta uccidere piuttosto che vedere infelice quello che rappresentava la sua unica ragione di vita. Solo una cosa non era mai riuscita ad evitare: le porte chiuse. Al piccolo non piaceva che in casa si chiudessero le porte delle stanze, come se avesse bisogno di tenere sempre sotto controllo quello che avveniva intorno a lui. Intanto le lancette dei secondi scorrevano veloci, i minuti passavano e con i minuti le ore, tra poco sarebbe arrivato. Luisa pensava alla famiglia e alle colleghe di lavoro, a quante volte aveva loro mentito. Sicuramente molte avevano capito che qualcosa di orribile stava accadendole, nessuna però comprendeva il suo silenzio e come mai lei non denunciasse l’uomo, specialmente Patrizia, la sua amica del cuore, non si dava pace: “Devi denunciarlo quello schifoso, se non lo fai tu prima o poi ci vado io dai Carabinieri.” Eh si! Sembrava facile, ma tra il dire e il fare ……Lui ormai era abituato a quella vita, si sentiva sicuro che sarebbe continuata così per sempre, non si sarebbe rassegnato a perdere tutto quello che aveva, non avrebbe lasciato facilmente l’oggetto che soddisfaceva le sue voglie, che stirava i pantaloni stando attenta alla piega diritta, al letto rifatto tirando all’infinito i lenzuoli, alle scarpe lucidate ogni mattina, alle succulente pietanze preparate magistralmente. E poi ai soldi del suo stipendio che, per lui, era ormai diventato una gratifica mensile, sul quale aveva potere di controllo e del quale Luisa, da tempo, non aveva più disponibilità. E no, lui, il re, non avrebbe accettato l’abbandono del suo servo e avrebbe fatto di tutto per punirla e per riprendersela, o forse anche ucciderla. Ecco, pensandoci bene, non era tanto la vergogna che la frenava, il mettere tutto in piazza, il far conoscere il suo dramma agli altri, quelle erano cose che col tempo si sarebbero aggiustate. Era la paura dell’uomo che la bloccava, di tutto quello che sarebbe successo il giorno dopo, così tutte le volte che passava di fronte alla caserma dei Carabinieri aveva il pensiero di salire quegli scalini ma poi, voltava lo sguardo e tirava dritto. Guardò per l’ennesima volta l’orologio della cucina, segnava le otto e venti, strano che l’uomo non fosse ancora tornato, era sempre così puntuale, almeno in quello era perfetto, non mancava mai un appuntamento, come quando da fidanzati fissavano per passare la Domenica insieme, era sempre lei a ritardare, lo vedeva in fondo al cancello del condominio che l’aspettava, allora agitava la mano, lui rispondeva al saluto e sorrideva. Come sarebbe stato bello tornare indietro negli anni, quando tra loro non c’era l’amore malato che stava vivendo. Luisa pensava anche che se lui fosse sparito o se ne fosse andato non avrebbe sofferto, troppe erano le meschinità e le pene che stava subendo in silenzio, troppi i pugni, troppe le minacce, troppi gli anni, la sua vita era diventata un inferno. A volte, rimuginando, si trovava a desiderare la morte dell’uomo.Poi provava vergogna e ricacciava subito indietro il pensiero. Le uniche ore di pace erano quelle del sonno, poco in verità, e sempre agitato. Il re russava e lei, vittima impotente, stava a guardare il soffitto per ore, ripensando alla sua vita e al suo bambino che dormiva nella cameretta accanto alla loro. Improvvisamente, il suono del campanello la distolse dai suoi pensieri. Chi poteva essere? Lui aveva le chiavi. Mentre si alzava per andare ad aprire dette nuovamente un’occhiata all’orologio. Le otto e quaranta. I giovani uomini in divisa, giganteschi, erano fermi sulla soglia, dai loro occhi traspariva incertezza e disagio. “Buonasera signora, possiamo entrare?” Luisa fece cenno di si con la testa. “Cosa è successo?” domandò con un filo di voce. “Si sieda signora, dobbiamo darle una brutta notizia”.
Sola, dopo l’incidente era rimasta sola con il suo bambino e quel “dopo” lo aveva passato come in un incubo, sembrava che il mondo le fosse crollato addosso. Cosa avrebbe dovuto affrontare adesso? Come sarebbe stato il suo futuro? I problemi economici, l’educazione del bambino al quale, nonostante tutto, mancava la figura paterna accanto, la ditta nella quale lavorava dove, ogni mese che passava, gli ordini diminuivano, la solitudine. Poi col tempo aveva cominciato ad accettare questo “dopo” come una cosa ineluttabile, un percorso obbligato che stava restituendo forma al suo carattere dandole una sicurezza mai avuta, una sensazione di rinascita e con esse una nuova vita. Nonostante si rendesse conto che non era lei la responsabile di quanto successo, spesso alternava momenti di euforia a momenti nei quali uno strano senso di colpa la opprimeva. Come era possibile che quell’evento luttuoso le stesse regalando serenità? Non sentiva un dolore vero, ma un senso di grande tristezza, al tempo stesso però, specie quando la mattina si alzava, percepiva una sensazione di libertà, come se il suo agire finalmente dipendesse solo da lei e dalla sua volontà. Giorno dopo giorno stava riacquistando padronanza delle sue azioni e come un bambino che inizia a leggere e a scrivere si stupiva di quello che provava. Era così bella dunque la quotidianità delle persone che da sempre la circondavano? Un figlio che era la sua ragione di vita, il ricordo delle botte ricevute che il trascorrere del tempo trasformava in un lontano e sempre più fievole incubo, la libertà di dover rendere conto solo a sé stessa nello spendere il denaro che guadagnava. Anche le stesse delusioni e gli stessi dispiaceri che spesso la vita riserva all’animo umano, avevano un sapore diverso, sgravati dal peso delle violenze gratuite di lui, diventavano parte necessaria del normale cammino dell’esistenza.
A volte quando il bambino usciva da scuola, andavano insieme a mangiare in centro, un panino e una Coca, poi passeggiavano senza fretta, mano nella mano, scherzando tra loro, senza orari da rispettare e solo quando erano stanchi riprendevano la via di casa.
Era bello riprendersi i propri spazi e accorgersi che anche il piccolo ultimamente era cambiato, a scuola stava recuperando, era meno timido con l’insegnante e con i compagni e quando a casa doveva fare i compiti chiudeva la porta della sua stanza.
Luisa guardò l’orologio sulla parete della cucina, erano da poco passate le otto, a quell’ora Marco, finito il turno in Questura, si sarebbe fermato a comprare le pizze calde e fumanti, appena sfornate. Quel gigante in divisa conosciuto tre anni prima aveva trasformato pazientemente l’angoscia e il dolore in un cammino verso un futuro diverso, la normalità del vivere quotidiano fatto di cose semplici, sincere, genuine. Era riuscito col tempo a farle battere il cuore in maniera ben diversa dalla paura, ad infonderle sicurezza, a farle riscoprire l’amore. Quello vero.
Sentì aprire la porta e, come sempre, una voce familiare che la chiamava. Sorrise felice.
” I diritti delle donne sono una responsabilità di tutto il genere umano; lottare contro ogni forma di violenza nei confronti delle donne è un obbligo dell’umanità; il rafforzamento del potere di azione delle donne significa il progresso di tutta l’umanità.” (Kofi Annan)
La tematica di questo racconto è molto veritiera in quanto non passa giorno che assistiamo dalla TV ai social a storie che riguardano violenze sulle donne ed addirittura femminicidi. Bisogna ammettere che alla protagonista dopo tante sofferenze fisiche e mentali (paure umiliazioni ed insulti) riacquistando la sua dignità è andata bene, ma a quante altre la liberazione coincide solo con la morte? Donne “serve” private di tutto. Gli uomini dovrebbero essere educati sino da bambini a tenere sotto controllo la loro aggressività silente (quelli che ce l’hanno). Solo così si riuscirà a raggiungere il traguardo più ambito: la libertà e l’ugualianza per tutti.
Gentilissima Stella,
grazie per il tuo prezioso commento. Che se ne parli. Tutto quello che affronta il doloroso tema della violenza sulle donne deve diventare uno stimolo alla riflessione ed un invito a progredire su di una strada impervia e piena di ostacoli verso la soluzione del problema. La politica, le Istituzioni, noi tutti abbiamo il dovere di sentirci senza pace finché questa barbarie non avrà fine.