“Per Adolf Eichmann” di Primo Levi
Corre libero il vento per le nostre pianure,
Eterno pulsa il mare vivo alle nostre spiagge.
L’uomo feconda la terra, la terra gli dà fiori e frutti:
Vive in travaglio e in gioia, spera e teme, procrea dolci figli.
… E tu sei giunto, nostro prezioso nemico,
Tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte.
Che saprai dire ora, davanti al nostro consesso?
Giurerai per un dio? Quale dio?
Salterai nel sepolcro allegramente?
O ti dorrai, come in ultimo l’uomo operoso si duole,
Cui fu la vita breve per l’arte sua troppo lunga,
Dell’opera tua trista non compiuta,
Dei tredici milioni ancora vivi?
O figlio della morte, non ti auguriamo la morte.
Possa tu vivere a lungo quanto nessuno mai visse:
Possa tu vivere insonne cinque milioni di notti,
E visitarti ogni notte la doglia di ognuno che vide
Rinserrarsi la porta che tolse la via del ritorno,
Intorno a sé farsi buio, l’aria gremirsi di morte
Primo Levi compose la poesia “Per Adolf Eichmann” il 20 luglio del 1960. Erano trascorsi appena tre mesi dall’annuncio di Ben Gurion della cattura da parte del Mossad del criminale nazista. Quindici anni dopo il processo di Norimberga, fu processato in Israele e condannato all’impiccagione per genocidio e crimini contro l’umanità. La sentenza fu eseguita il 31 maggio 1962. Levi non augura la morte ad Eichmann ma un destino ben peggiore.
Seguendo il senso della poesia e in occasione del giorno della memoria un mio racconto:
Il sogno del capitano
«Ogni notte sogno un treno. Forse non è un treno, è solo un vagone. È inutile che mi sforzi di capire quando l’ho sognato perché lo sogno tutte le notti. Ieri, l’altro ieri, stanotte, anche stanotte ho sognato quel vagone. Sì, anche stanotte ho sognato quel vagone perché le immagini che ho visto, i suoni che ho sentito, le voci, gli odori, sono ancora troppo nitidi, mi sono entrati dentro come un veleno e non riesco a liberarmene. Non esistono antidoti per questo veleno.
Dunque ho sognato un treno, cioè per meglio dire, il vagone di un treno, è uno dei tanti attaccati tra loro ma io sono in quello lì, proprio in quel vagone. Questo è certo. E il treno viaggia attraverso la campagna innevata. Fa molto freddo e lungo i finestrini aperti si formano, dall’alto verso il basso, dei lunghi ghiaccioli. È un vagone piccolo, fatto con le assi di legno assemblate insieme, di quei vagoni che servono al trasporto del bestiame, di quelli chiamati carri merci. Sto stretto in quel vagone, a fatica posso girarmi, sedermi sul pavimento è impossibile tante sono le persone intorno a me. Sono decine e decine, di tutte le età, anche molto anziane, poi ci sono i bambini, piccolissimi, alcuni dei quali attaccati al seno delle madri. Di qualunque persona lontana da me già due o tre metri posso solo percepire la presenza, risulta impossibile vederla tanto il vagone è affollato. Ci sono anche due donne in evidente stato di gravidanza. Hanno la pancia tonda che non riescono a proteggere dalla pressione degli altri corpi incredibilmente stipati.
Intanto il treno continua a viaggiare. Il vagone ad ogni scossa rende l’equilibrio precario, qualcuno per non cadere si aggrappa al vicino, suscitando imprecazioni in mille lingue a me sconosciute. Non riesco a capire da quanto tempo siamo in viaggio e nessuno ci dice dove siamo diretti. Qualcuno si è accovacciato in un angolo del vagone e sembra morto, anzi, è sicuramente morto perché ad ogni curva si muove come una bambola di pezza. Ogni volta che il vagone trova uno scambio e le ruote sobbalzano sulle rotaie, la testa di una di loro, delle persone morte intendo, batte con violenza sulla parete di legno del vagone emettendo un suono secco, lugubre e sinistro, ma nessuno se ne cura, ognuno pensa a sé. Anch’io devo pensare a me stesso e mi assale la disperazione. Il treno continua la sua corsa lenta e senza meta, qualcuno ha vomitato, altri stanno facendo i loro bisogni per terra, senza ritegno, sotto gli occhi di tutti. Anch’io lo faccio e mi sporco. Il tanfo nel vagone è insopportabile, l’aria piena di miasmi e di fiati è diventata oramai irrespirabile. C’è odore di morte in questo vagone. Mi avvicino lentamente, con mille difficoltà verso il piccolo finestrino rettangolare sbarrato dal filo spinato. Qualcuno mi tiene per la divisa, la mia bella divisa da Hauptsturmführer ormai lurida e sgualcita. Non ce la faccio a raggiungerlo. Quanti saranno intorno a me nel vagone? Quaranta, cinquanta, sessanta persone? No. Sono di più. Molte di più. Forse un centinaio? Chissà?
Molti si lamentano, altri respirano faticosamente, a tratti, tanti hanno lo sguardo assente, fisso nel vuoto. Quasi tutti i bambini piangono, alcuni urlano spaventati. Qualcuno dorme, a volte si riscuote, poi riprende a dormire. Una madre si è seduta rannicchiata vicino ad una parete del vagone e stringe al petto il proprio bambino ormai senza vita. Continua a dondolarsi avanti e indietro sussurrandogli una cantilena, una sorta di ninna nanna «Lulinke Main Zun, Lulinke Main Zun». Intanto le piccole mani penzoloni di quel cadaverino toccano strisciando il pavimento di legno. Intanto il treno continua il suo viaggio, la sua corsa lenta verso una destinazione ignota.
Adesso, di fronte agli occhi ho la mia casa, sto dormendo nel mio letto caldo e sogno. Sogno di mangiare del pane appena sfornato e di bere un grosso boccale di birra di fronte al caminetto acceso nel soggiorno della mia casa in Baviera. Un sogno nel sogno. Subito interrotto, che lascia l’amaro in bocca perché mi sveglio e rientro nel sogno di sempre. Poi all’improvviso tutte le persone che sono all’interno del vagone si sono voltate verso di me e mi guardano con occhi tristi. Anche i bambini, come mossi da una forza sconosciuta sfilano di fronte a me e si presentano. Sento ripetere come un mantra il suono delle loro voci. Prima dicono il loro nome seguito dalla loro età e dopo qualche secondo, con timbro più basso, scandiscono il nome di un luogo e una data.
Samuele Ancona 8 anni Auschwitz 13 febbraio 1944
Daniele Ancona 37 anni Auschwitz 22 marzo 1944
Sarah Klein 67 anni Dachau 11 dicembre 1943
Ester Puritz 22 anni Majdanek 11 gennaio 1944
E così continuano come la recita di una tragica nenia funebre, senza sosta. Quando a causa dell’altezza qualche bambino non arriva a guardarmi, subito qualcuno alle sue spalle lo prende sotto le ascelle e lo solleva perché io, a sua volta, lo possa guardare dritto negli occhi ma non ce la faccio ed abbasso la testa.
Leah Kern 3 anni, Eva Colombo 3 anni, Mordecai Wasserman 2 anni, e le date e i posti, Sobibor, Treblinka, Dachau, Auschwitz…. E via e via e via…senza mai fine, senza tregua, migliaia di nomi, migliaia di migliaia. Milioni.
Allora mi sveglio, ma sono sempre all’interno del vagone, fuori non c’è più la neve ma l’estate terribile di un luglio lontano e fa un caldo terribile, sembra di essere in un forno, non riesco a respirare. Manca l’acqua e la sete diventa una tortura terribile. Rende folli. I bambini si lamentano e boccheggiano. Dopo qualche minuto smettono di farlo e si irrigidiscono. Sto sognando, è un maledetto sogno, di questo sono certo. È solo un maledetto sogno ma nel mio cuore cresce l’inquietudine, poi l’inquietudine si trasforma in angoscia profonda ed infine questa si trasforma in un tormento insopportabile. Atroce. Sono consapevole della mia impotenza, niente posso fare e niente riesco a fare per alleviare la mia e la loro sofferenza. Il treno intanto continua il suo interminabile viaggio. È un incubo terribile, è come se tutto il male del mondo, il male che ho fatto, un male impossibile da spiegare mi fosse ricaduto addosso. Il Male Assoluto.
Lontano risuona «Lulinke Main Zun, Lulinke Main Zun», e io rivedo gli occhi di quella madre e le piccole mani di quel bambino che strisciano sul pavimento di legno. Quella cantilena mi è insostenibile, mi fa impazzire. Tutte le notti faccio lo stesso sogno, e i nomi delle persone, le date, i luoghi si susseguono a milioni, a milioni di milioni come a scandire il tempo per i passi di un’orribile, macabra danza.
Allora mi sveglio, apro lentamente gli occhi e vedo le pareti della cella. Non è sollievo essere svegli perché l’unica cosa che riesco a fare è ripensare al sogno del mio viaggio nel vagone maledetto. Confesso che non mi pesano tanto queste quattro mura e lo spazio angusto nel quale sono rinchiuso, in fondo qua mi trattano bene, il cibo non è male anche se poco e freddo, posso usufruire del barbiere una volta ogni due mesi e ultimamente mi hanno procurato un vecchio bollitore per fare il tè. No, non mi pesa il carcere nel quale sono rinchiuso da molti anni, quanto il sogno che tutte le notti mi si ripresenta come una maledizione terribile alla quale non si sfugge, un sortilegio al quale non c’è via di scampo. E’ nuovamente sera e tra un po’ le guardie spengeranno le luci ed io attendo con terrore di rifare, come tutte le notti, nuovamente quel viaggio, di veder quegli occhi, di sentire quelle voci, di sognare un’altra volta, come sempre, quel maledetto vagone».
Racconto evocativo di grande impatto emotivo, incalzante nella narrazione realistica dei treni della morte con il carico delle povere “bestie umane”. Una piccola simpatia per il soldato tormentato dai rimorsi personaggio principale, evocatore della tragedia, tormentato dai sensi colpa. Bel racconto!
Ti ringrazio Lucia delle belle parole di apprezzamento per il racconto, ma c’è una cosa che, pur sforzandomi, non condivido. Nessuna simpatia! Non provo alcuna simpatia, neanche la più piccola per l’ Hauptsturmführer!
Bisogna per forza fare un distinguo fra lui e quelli che non hanno mai provato rimorso. Abbiamo perdonato molti fascisti che avevano dichiarato il loro pentimento (e tanti che non hanno dichiarato niente) possiamo avere una piccola comprensione per un uomo pentito e tormentato
Condivido totalmente gli apprezzamenti sul racconto che, nonostante il contenuto difficile da trattare, è mirabile. Mentre non condivido affatto la “simpatia” cui si fa riferimento, né “la comprensione” che si invoca per coloro che si sarebbero “pentiti”. Ritengo che uno degli errori storici maggiori che sono stati fatti, sia stato credere al comodo pentimento di coloro che hanno avuto parte attiva negli orrori del nazifascismo. Citando Simon Wisental, si dovrebbe chiedere a ciascuno dei 6mln di persone ammazzate se potrebbero provare “simpatia” o”comprensione” per questi individui. Non incito all’odio né alla vendetta, diventerei come loro, ma nessun sentimento umano potrò mai condividere con coloro che hanno deciso, allora, di stare con gli aguzzini o di esserlo loro stessi. Il tempo può lenire le ferite ma non può annullare la memoria, abbiamo il dovere di essere vigili, oggi più che mai.