Venezia, il sestiere di Cannaregio, è autunno, una gita di pochi giorni con mia figlia, nove anni e gli occhi spalancati sul mondo. Ci fermiamo a mangiare un boccone in una vecchia mescita per godere una delle poche tradizioni ancora sopravvissute all’assalto dei turisti. Il quartiere è pieno di colori, di voci, di odori e di suoni, persi nello sciabordio continuo dei canali in un gioco di luci riflesse sull’acqua. L’osteria è fumosa e attraverso la finestra che dà sul canale i tavoli di marmo riverberano i raggi di un pallido sole. Tutto qua sa di antico ed è pieno di cose perdute, dal bancone di legno consumato dagli anni alle pareti piene di fotografie. La ragazza che serve ha le gote rosse e le mani screpolate e sorride ai tanti avventori dalle mille estrazioni. È entrare in un sogno ad occhi aperti, un sogno che viviamo da svegli e che ci sorride in questa breve vacanza. Si è fatto tardi, pago il conto e mi avvio all’uscita facendo zig zag tra gomiti e gambe, mi volto e vedo mia figlia che fa ciao a un vecchio signore seduto in un angolo, di fronte a un bicchiere di vino. Ha l’aria di essere senza fissa dimora quell’uomo dall’aspetto pietoso e malandato. Strano che non l’abbia notato prima, ora vedo che ha proteso il braccio verso mia figlia e apre e chiude ritmicamente la mano. Sorride dolcemente, in maniera un po’ triste e lei risponde agitando la manina. Un autunno a Venezia e il dono di un sorriso che non ho scordato mai. Anche questo è la vita.
a.o.