Quando ero piccolo mi sentivo ripetere spesso che nella Sicilia dei miei nonni il pane in tavola non si metteva mai rovesciato e quando cadeva, chi lo raccoglieva, prima di rimetterlo a posto, lo baciava. Mai si buttava, sempre veniva riutilizzato. Al pane si deve rispetto, lo stesso rispetto che si ha per il lavoro, per la fatica, per il sudore dell’uomo. Avviene però che, proprio come per ogni altra merce, il prezzo del grano, e quindi del pane, sia determinato dalle compravendite che avvengono nelle borse regionali e mondiali. Tutto ciò sminuisce il valore simbolico e la sacralità di un pezzo di pane. Esso diventa così oggetto di scambio, un pezzo di carta fra innumerevoli altri pezzi di carta che, nelle contrattazioni, rappresentano denaro. Una merce violentata, che serve unicamente ad arricchire centinaia di migliaia di individui e, estremizzando ma non troppo il concetto, a far sì che altri milioni siano impossibilitati ad avere un pugno di farina per non morire di fame. Ora, è palese che la mia riflessione comprende, in un concetto più ampio, le centinaia di milioni di tonnellate di cibo che ogni anno vengono buttate tra i rifiuti. È sotto gli occhi di tutti che nelle città opulente, icone di spreco e immagini personificate dell’egoismo umano, si accumulino immense montagne di scarti di cibo ancora commestibile. Se fosse possibile recuperare tutto ciò che sprechiamo, si potrebbe sfamare due miliardi di persone. In queste città, la cura della propria linea e della propria forma diventa un obbiettivo al quale nessuno vuole rinunciare, si ingrassa nei ristoranti e si dimagrisce in palestra e il pane viene sprecato nell’abbondanza. Chi ha fame e chi, invece, getta via il cibo perché ne ha troppo, non abita mondi diversi, tutti viviamo su questo pianeta. Verrebbe da ridere, se non fosse una cosa estremamente seria che riguarda la vita di miliardi di persone, il constatare che in una società dove anoressia ed obesità coabitano, esse siano le due facce della stessa medaglia, quella del disagio personale. Una continua doppia e insopportabile pressione al consumo e al salutismo. Chi ha cibo a sufficienza riscopre la fame rincorrendo la linea e la forma del proprio corpo come un modello irraggiungibile. Chi invece ha fame davvero rimane invisibile, inghiottito da una società distratta e assente. Occorre spogliarsi dai panni del distacco e dell’insensibilità ai problemi degli ultimi e indossare quelli della condivisione delle difficoltà degli altri che infine sono anche le nostre. È necessario, non mi stancherò mai di ripeterlo, guidare le nostre coscienze verso una dimensione nuova dove il primo passo è quello di mettersi in ascolto della voce flebile ma continua dei più deboli. Mi domando se sia realmente possibile cambiare lo stato delle cose e penso di sì, sono fermamente convinto che sia possibile. Lavoro lungo e duro questo perché per cambiare lo stato delle cose, anche se mosso dalla speranza, devi pagare il prezzo di un travaglio interiore pieno di ostacoli. Questo esercizio appare insopportabile il cui peso però diventa strumento di forza che trasforma il male in bene. Quando sento la semplicistica affermazione che l’egoismo e il male è nella natura dell’uomo ripenso a ciò che scriveva lo scolopio padre Ernesto Balducci, uno dei più grandi intellettuali del ‘900: «L’uomo non si definisce in rapporto a una natura, ma in rapporto a una cultura, perché l’uomo è sempre, in quanto uomo, cultura. E allora a decidere che cosa sarà l’uomo di domani, sarà la cultura che avremo creato, che avremo preparato.» Su questo mi sento di aggiungere che in ballo non ci sono solo i diritti inviolabili e fondamentali di ciascuno, non c’è solo la restituzione di una dignità perduta, non ci sono nemmeno un ordine morale e un’etica da riscoprire. In ballo c’è qualcosa di molto più grande, di molto più importante: il futuro non negoziabile delle nostre coscienze.
a.o.