Ecco! Ci risiamo! Un secondo Lockdown. Rientro a casa bagnato di pioggia dopo la mia passeggiata necessaria a scrollarmi di dosso tutta l’inerzia di un periodo forzato e frustrante. È scesa la sera e, oltre alla pioggia, quella nebbiolina fuori che sale mi invita ad accendere il fuoco. La stanza è immersa nella penombra, la fiamma proietta sulle pareti lingue di luce e giuochi d’ombre si stagliano sul mio vecchio e amato pullover. Fuori dai vetri continua a piovere senza sosta. A pochi passi da me c’è l’ospedale dove, in questo periodo, troppa gente muore. Le ambulanze vanno e vengono in una terribile e incessante danza al suono delle sirene. È un luogo di dolore e adesso c’è fame d’aria nelle corsie, manca il conforto di un abbraccio, la stretta rassicurante di una mano, un sorriso amico. In certi momenti sembra che tutto infierisca contro, che l’equilibrio di ogni cosa non sia più tale. Chissà se la terapia del tempo farà ricomporre questo periodo strano della nostra vita. Intanto, specie in questo momento, quando si è soli con sé stessi, riaffiorano i ricordi, nel dolore come nella gioia. Condividere in famiglia e con gli amici momenti di vita, un caffè, una festa, una cena, è qualcosa di bello ma è bello anche il dopo, il ricordo di una storia narrata, le bottiglie e i bicchieri vuoti, la tovaglia macchiata e i pezzi di pane sul tavolo, le sedie spostate, l’aria pesante e fumosa che sa di buono, l’eco di un canto e di una risata. In periodo di pandemia dove ci hanno tolto tutto e dove quel che rimane è sospeso e irreale, diventa forte e necessario il bisogno di commuoversi e richiamare alla memoria la libertà persa. Durante la Pasqua ebraica (Sedèr di Pesach) i cibi sono accompagnati da pane azzimo ed erbe amare come il rafano e al centro della tavola imbandita viene messa una ciotola di acqua salata dove intingere verdure diverse. Tutto questo per non dimenticare mai gli anni della schiavitù in Egitto ma anche e soprattutto per ricordare la conseguente guadagnata libertà. Anche quest’autunno ha sapore di sale e di erba amara che impregnano l’animo e il cuore, cosicché reclamiamo la dolcezza e la normalità di una vita distante e assente, di tutto quello che appena un anno fa è stato e che appare ancora lontano dall’esserlo ancora. Però già il ricordo e la voglia di tornare a quella normalità è lotta, commozione, speranza. Etty Hillesum durante il suo internamento nel campo di Westerbork nel settembre del 1943 e tre mesi prima di morire ad Auschwitz scriveva a un’amica infermiera a cui era particolarmente legata una lunga lettera. In un passo si legge: «Maria, ora siamo un tantino più vecchi. Noi stessi non ce ne rendiamo veramente conto: siamo stati marchiati dal dolore, per sempre. Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile profondità…»
a.o.