La cronaca dei giorni dell’alluvione di Firenze, anche se il contesto e la situazione dello stato pandemico che stiamo vivendo sono diversi, porta a una riflessione
Quel giorno a Firenze, come in tutta Italia, era festa, la festa delle Forze Armate, non si andava a scuola. Era di venerdì, un venerdì cupo e piovoso. Ero ancora un bambino e all’alba del 4 novembre 1966, stavo dormendo tranquillo, cullato dal rumore della pioggia sul tetto. Vennero a svegliarmi dicendomi che l’Arno “era andato di fuori”. Non ci volevo credere. Andammo tutti, io, il babbo e la mamma, fino a piazza del Duomo. Loro davanti ed io trotterellando dietro come in un gioco. Non lo era. L’acqua correva via come un fiume infrangendosi forte verso il Battistero ed imboccando a velocità impensabile via dei Cerretani. La corrente era impetuosa. Un uomo si era attaccato alle ringhiere di ferro battuto di fronte alle porte del Paradiso, lottava con tutte le sue forze ma venne ingoiato dai flutti di davanti ai nostri occhi. Eravamo consapevoli della nostra impotenza. Ci salvammo per miracolo, tornando indietro, questa volta correndo, verso casa. Il babbo mi aiutava a superare gli ostacoli con l’acqua che continuava a salire, la mamma che mi teneva a sé stringendo la piccola mano ed un lembo del cappottino. Mi ripresi presto dalla paura, anche se nei miei occhi rivedevo sempre quel fiume di acqua e fango che passava. Come ogni bambino nei giorni a venire avevo accettato tutto con curiosità, affascinato dall’emergenza: la luce che mancava, il latte condensato sciolto nell’acqua reperita a costo di lunghissime file davanti alle autobotti, le scuole chiuse, i gambali per uscire di casa, il freddo delle sere passate senza riscaldamento. In quei giorni le notizie arrivavano in maniera frammentaria. “Hanno trovato dei morti nel sottopasso della Stazione.” “No, non è vero, erano in via Nazionale.” “Sono scappati i detenuti dal carcere delle Murate. Qualcuno è morto affogato.” “No, no, non è affogato nessuno, anzi uno di loro ha salvato dall’acqua due persone.” “Il Papa ha detto che viene a visitare la città. C’è anche il Presidente Kennedy.” “No lui forse non viene.” “Hanno detto che domani funziona telefono e luce. Forse!” Era un susseguirsi continuo di notizie, smentite subito dopo. Informazioni gridate da finestra a finestra, sussurrate durante le attese per reperire l’acqua e il cibo, bisbigliate per strada, ai crocevia, quando la fanghiglia o le montagne di mobili e tronchi sbarravano il passo. Dopo molti giorni, insieme alla nonna, tornai a visitare il centro di Firenze immersa ancora nella mota che si stava seccando al sole. Ero triste. C’erano cose che non riuscivo bene a capire, troppo grandi per me. Fui sorpreso dai commercianti che a testa bassa pensavano a ripulire i negozi, le mani nell’acqua a recuperare quello che non esisteva più, senza dire una parola. L’Arno, sazio, scorreva tranquillo sotto il Ponte Vecchio, carico di tronchi abbarbicati alle colonne di pietra. Erano bellissime giornate di sole ed io, se ci penso, sento ancora l’odore forte e penetrante del fango e della nafta da riscaldamento che imbrattavano le strade, i muri dei palazzi medioevali, le statue, i libri della Biblioteca Nazionale, le opere d’arte. Tutto! Quel fango era entrato anche nell’anima dei Fiorentini ma non aveva intaccato la volontà di rimboccarsi le maniche per sistemare quell’inferno. Un popolo intero, il mio popolo, lavorava alacremente per ricostruire. Stavamo lentamente ma con coraggio tornando alla vita. Di quei giorni mi sono rimasti solo ricordi frammentari, confusi, a volte pieni di angoscia, però quel periodo buio mi ha insegnato che non bisogna perdere mai la fiducia nel futuro. Molti erano morti, e a molti di noi non era rimasto più niente. Ogni famiglia aveva perso qualcosa. C’erano negozianti e imprenditori che avevano perso tutto, il lavoro di anni e anni se ne era andato con l’acqua del fiume. Un po’ come in un terremoto, solo che le case erano in piedi, ma il resto non c’era più. Ricominciare sembrava impossibile. C’è però ancora indelebile nella mia mente uno struggente ricordo. Una mattina di dicembre, la scuola non era ancora agibile ed io rimasto a casa guardavo dalla finestra gli autocarri militari e i soldati che passavano con le divise sporche di fango e morchia. C’erano i negozianti che continuavano a vuotare i magazzini senza sosta, accatastando la merce ormai inservibile fuori sulla strada. Uno di loro si voltò verso di me, mi fece ciao con la mano e sorrise. Non lo scorderò mai. A distanza di oltre mezzo secolo rivedo quegli occhi. In quegli occhi, nonostante tutto, c’era ancora fiducia nel futuro. La fiducia che avremmo vinto.
a.o.
peccato che oggi quella fiducia si faccia a gara a farla venire meno