In un assolato mattino di giugno del 1963 a Mosca in via Pesciànaya moriva, sul pianerottolo delle scale vicino alla porta aperta di casa, Nazim Hikmet.
Chissà? Forse non avrebbe mai immaginato di morire così uno tra i più importanti poeti dell’epoca moderna, certo è che nei versi della poesia “Il mio funerale” scritta appena un mese prima, c’era stata la volontà di metter su carta la consapevolezza di un evento inevitabile e che, prima o poi, il suo cuore malandato non ce l’avrebbe fatta. Quelle strofe svincolate da ogni regola poetica, però erano anche un inno alla vita, una grande fede nella libertà, la brama e l’affanno di continuare a sentirsi liberi. Figlio di un diplomatico e di una pittrice amante della poesia francese Nazim Hikmet nasce a Salonicco nel 1902 ed è annoverato tra uno dei maggiori poeti turchi che tradotto in moltissime lingue ha conosciuto grande notorietà anche in Occidente. Abilissimo ad utilizzare la tecnica dei versi liberi scrive i suoi primi testi all’età di quattordici anni e a diciassette appare su di una rivista la sua prima pubblicazione.
Studia sociologia presso l’università di Mosca dove scopre i testi della rivoluzione sovietica e di Marx. Conosce Lenin e Majakovskij poeta e drammaturgo sovietico che ha su di lui una grande influenza. Hikmet ha trentasei anni quando viene accusato di incitamento alla ribellione contro le violenze e le repressioni del leader turco Kemal Ataturk e condannato a più di 28 anni di carcere. Nel 1949 una commissione internazionale della quale facevano parte anche Pablo Picasso, Pablo Neruda e Jean Paul Sartre interviene per favorirne la scarcerazione. Il poeta liberato un anno dopo e sotto la minaccia di un nuovo arresto riesce ad espatriare clandestinamente e raggiungere Mosca dove scrive numerose raccolte di poesie.
Hikmet, il poeta che non ha mai trovato nel suo paese un editore disposto a stampare le sue opere, si reca spesso in Italia, paese che ama particolarmente, dove incontra il favore della critica e viene pubblicato da diverse case editrici tra le quali Einaudi, Mondadori e Sansoni.
Di questo poeta rivoluzionario tra i più celebri del nostro tempo ci rimangono i versi immortali che compongono un itinerario creativo svincolato da inutili orpelli, ma intensamente forte nel trasmettere il messaggio dell’amore, della libertà e, come appare in moltissime sue poesie, della bellezza della vita. Le sue poesie immediate e schiette colpiscono il lettore per la loro semplicità. Di seguito riporto una nota della scrittrice Joyce Lussu, amica e traduttrice italiana del poeta turco e una poesia dedicata al figlio. Tramite questi versi il poeta invita suo figlio Mehnet ad amare gli uomini e ad avere fiducia in essi. Un vero testamento che inneggia all’amore verso il proprio simile.
«La mescolanza di razze, di culture e di esperienze diversissime ne avevano fatto un essere ricco e originale, levigato dalle discipline ma sdegnoso di servire. Non si piegava ai compromessi, nemmeno a quelli che in generale, con sottile opportunismo, definiamo necessari. […] ha vissuto come un uomo libero, padrone sempre di sé stesso e della sua condizione consapevolmente affrontata. Che sia morto, non ha grande importanza. Il suo modo di essere si è realizzato ed espresso nella sua poesia, e tutto continua, salvo il rinnovarsi della sua personale felicità o infelicità e il battere faticoso del suo cuore tra un infarto e l’altro. I suoi amici, presenti e futuri (ne nasceranno ancora tra molto tempo), continueranno a leggerlo.» (Joyce Lussu)
Prima di tutto l’uomo
Non vivere su questa terra
come un estraneo
o come un turista della natura:
Vivi in questo mondo come nella casa di tuo padre;
Credi al grano, alla terra, all’uomo.
Ama le nuvole, le macchine, i libri
ma prima di tutto ama l’uomo.
Senti la tristezza
del ramo che secca,
dell’astro che si spegne,
dell’animale ferito che rantola
ma prima di tutto senti la tristezza
e il dolore dell’uomo.
Ti dian gioia
tutti i beni della terra.
L’ombra e la luce ti dian gioia,
le quattro stagioni ti dian gioia
ma soprattutto, a piene mani
ti dia gioia l’uomo.
(Nazim Hikmet)