Leggendo il racconto di Lucia in questi giorni di solitudine forzata, mi assale la struggente e sana nostalgia di un tempo che prima della pandemia avevamo dimenticato. Gesta, tradizioni, parole, sentimenti veri che vorremmo rivivere scordando la futilità di cose che adesso ci sembrano lontane e fuori luogo. Quanta tenerezza negli sguardi di Angelo e di Bruna, quanta poesia nei balli e nelle tavole apparecchiate sull’aia e sotto il pergolato, quanta passione nella frase di Gosto «Alla vendemmia, al vino e viva l’Italia». Sì l’Italia, questa Italia che sta lottando per non impazzire, per resistere, per vincere e per ritornare alla normalità. Il racconto di Lucia è semplice e diretto. Sia chiaro, ho detto semplice che non vuole significare banale o superficiale ma ha un significato più profondo e proprio per questo genuino, sano, che arriva dritto al cuore. Ho letto più volte questa storia per imprimerla bene nella mente, perché il suo contenuto fatto d’amore, di tradizioni e di valori, sembra fatto apposta per il tempo che stiamo vivendo ed aiuta a sperare in un ritorno di qualcosa di buono, di qualcosa che dovremo necessariamente riscoprire quando tutto sarà finito. Amare e rispettare quello che conta veramente nella vita, gli affetti, le amicizie, gli anziani, il cibo, il lavoro, il coraggio e la voglia di lottare. In questi mesi di solitudine abbiamo imparato a fare il pane in casa, a dare importanza ad un sorriso, ad apprezzare una brevissima passeggiata, a rimpiangere una cena con gli amici, un bacio, un abbraccio.
Sarà stupendo uscirne insieme, farsi comunità, riconoscere le proprie fragilità e per questo scoprire una forza sconosciuta e inattesa. Verrà il tempo nel quale testimonieremo il dolore ma anche la rinascita e sarà bello ritornare alle cose buone e finalmente gioire dell’essenziale. Ci ricorderemo dei nostri limiti come è successo ad Angelo durante l’anno passato sui monti con gli alpini al tempo della grande guerra ed apprezzeremo maggiormente la vita. Ci scrolleremo di dosso le macerie di un periodo sospeso e angosciante e ci ritroveremo con i capelli più bianchi ma proprio per questo ci scopriremo più veri, cresciuti, migliorati. Questo e forse tante altre cose ci vuole dire Lucia.
Buona lettura
LA PULA (Terra di Toscana)
I rumori, il vociare, i suoni del lavoro si sentivano forti fin dalla mattina presto, dopo il mattutino. La nonna lo aveva pregato nell’aia, qualche anziana come lei l’aveva accompagnata, le giovani no, non pregavano più, solo la domenica. Donne e uomini erano tutti nei campi con i falcetti a tagliare i grappoli dalle viti: grida, urla, risate. Ad un certo punto si sentì la voce di Gosto che sovrastò le altre: “Si fa la gara, chi fa prima a riempire il cesto, si fa io, Angelo e Silvio, tu Bruna calcola il tempo”.
La Bruna non aveva l’orologio, ce l’aveva Pietro nel taschino del gilet marrone di fustagno ormai sdrucito, lo prese da lui.
La Bruna si mise dove la potevano vedere i tre in gara, in cima a due filari di viti. Lei era bella come un albero di mele, quando le mele sono mature, le gote di fiamma e i capelli biondi come le spighe di grano quando arrivano a mietitura, gli occhi ardevano di un verde di erba medica, caldi e vellutati, il corpo era un’armonia di forme rotonde e affusolate. Sarta la mamma e sarta anche lei, era sempre molto elegante, quando non lavorava nei campi o in cucina. Lei tagliava e cuciva i suoi abiti, aveva il gusto raffinato più della sarta di città che di campagna, sfogliava le riviste di moda del tempo, poche in verità, con grande curiosità , non ne perdeva una e le conservava tutte, non sapeva leggere ma sapeva ricavare i modelli dei vestiti per sé e per le clienti che divideva con la mamma Agata.
Gli occhi di Angelo non volevano abbassarsi, stavano incollati addosso a Bruna, era pronto per la gara con il falcetto in mano, ma aveva una grande irrequietezza addosso. Era arrivato al paese maremmano, da un paese vicino, l’anno prima e aveva visto la Bruna per la prima volta a giugno, durante la mietitura. Era arrivato al podere richiamato da un amico. Si faceva così, si passava parola e ci si riuniva in gruppi di amici che poi si scambiavano da podere a podere per fare presto i lavori, prima che il tempo peggiorasse. Lui era un buon lavoratore, attento e veloce, due spalle poderose perché aveva fatto un po’ di pugilato, un corpo scultoreo grazie agli allenamenti in palestra, poi c’era stata la guerra e aveva dovuto dimenticare la palestra e la boxe. Era stato al fronte tutto un anno sui monti con gli alpini durante la grande guerra, quella del ‘15/18 ed era riuscito a sopravvivere. Dopo il congedo si era messo con il babbo a lavorare come falegname.
Nei giorni della mietitura, a giugno, due mesi fa, aveva falciato il grano con i fratelli di Bruna e con altri amici, anche lì avevano fatto le gare per chi falciava più veloce e aveva anche vinto un paio di volte su una diecina. Gli piaceva fare veloce, con un fazzoletto davanti alla bocca perché la pula che si alzava nello scuotere le spighe non gli arrivasse fino ai polmoni che poteva essere peggio della silicosi e dopo tossivi all’infinito.
Angelo aveva un animo di poeta anche se aveva fatto pugilato e la guerra, ma non sapeva scrivere, sapeva fare soltanto la sua firma e scarabocchiare alla meglio una sola frase che ricopiava sempre da un foglietto che teneva nella tasca della giacca militare, giusto per dare notizie in una cartolina:“Sto bene per grazie di Dio e spero così di voi tutti”. Ora che era finita la guerra con tutti gli orrori che aveva visto, piangeva i compagni che aveva perso. Faceva volentieri il lavoro di falegname, ma ancor più gli piaceva il lavoro della campagna, quel profumo penetrante della mietitura, del grano reciso alla base per farne fasci dorati, gli piaceva il profumo della cucina, di arrosti e di fritti che poi avrebbero mangiato tutti insieme, a fine lavoro, quando arrivava la sera, al grande provvisorio tavolo sull’aia.
Bruna era una delle ragazze addette alla cucina. Cucinavano e ridevano, si facevano scherzi e a volte cantavano.
Insomma Angelo si era innamorato di Bruna, innamorato da quasi tre mesi, che ora era la metà di settembre, l’uva era matura e fra poco sarebbe stata vino e la Bruna avrebbe pestato i grappoli nella grande tinozza insieme alle altre ragazze. Angelo al pensiero si sentiva rimescolare tutto.
La sera avrebbero cantato tutti insieme le canzoni che ascoltavano alla radio durante il giorno. Si divertivano a fare i versi quando cantavano “La vecchia fattoria, ia, ia oh”, questa canzone era una novità e tutti la cantavano continuamente, loro si dividevano i versi degli animali e ridevano, ridevano specialmente quando toccava al maiale. A lui piaceva fare il maiale e veder la Bruna ridere con la bocca rossa e i denti bianchi bianchi. Gli veniva una voglia di baciarla …
“Uno, due, tre, VIA!” la Bruna aveva dato il via e iniziò la gara. C’era un silenzio quasi impossibile. Tutti guardavano i tre cesti e il livello che piano piano raggiungevano, anche la Bruna si era avvicina a turno ai tre e guardava quanto mancava alla fine della gara tenendo d’occhio l’orologio da taschino di Pietro che aveva un coperchio che lei faceva scattare continuamente presa da un’ansia che non voleva ammettere con se stessa. Guardava il cesto di Angelo e pregava perché facesse presto a riempirlo. Da quando lei aveva conosciuto Angelo non era più riuscita a dormire la notte. Lo pensava continuamente, ma come faceva a dirglielo? al solo pensiero arrossiva e chinava la testa. “Però – si disse – lo voglio guardare negli occhi, vedrai che capisce” e subito dopo: “Non avrò mai il coraggio”. Passò vicina vicina ad Angelo e lo sfiorò appena all’altezza dei fianchi, così senza far capire neanche a se stessa che l’aveva fatto apposta.
Angelo si riscosse, aveva sentito un brivido lungo la schiena salirgli su dalla vita, sentì il profumo di Bruna carezzargli il volto, rimase immobile per un istante, mancò quattro o cinque colpi di falcetto, poi qualcuno gridò: “Angelo che fai? Stanco? Che fai la notte?” E tutti giù a ridere. Lui si risvegliò e cercò di rimediare, ma …
Gara finita. Vinta da Silvio, quello del negozio di frutta e verdura, quello che aveva il negozio sempre profumato: ora di giuggiole, ora di fichi, di funghi, di castagne, di melone e cocomero. Angelo impazziva per quegli odori, aveva un olfatto sensibilissimo e questo gli faceva molto piacere, per esempio poteva assaporare l’odore del letame anche da lontano, gli piaceva, specialmente dopo la guerra dove aveva imparato a conoscere l’odore dolciastro del sangue, della morte. Il letame, sapore di casa, di fiori, di animali, cavalli, mucche. Casa. Quante volte aveva legato l’odore del letame al pensiero di casa quando era al fronte! Lo sentiva forte quando doveva sparare al nemico, magari contadino come lui e magari, gli veniva da pensare, anche a lui piaceva l’odore del letame. Ingiusta e cattiva la guerra.
Si mise a sedere da una parte, quelli della gara avevano diritto a dieci minuti di riposo per riprendersi. Di nuovo pensò a giugno, alla mietitura e poi al momento della battitura del grano, che facevano a mano, soprattutto le donne. La battitura si faceva in giorni di vento, ma non troppo. Le donne si mettevano dal lato opposto del vento e battevano sui gambi per separarli dalle spighe, poi in sequenza altre battevano sulle spighe per separarle dalla buccia, la pula gialla. Infine mettevano i chicchi su vassoi di vimini larghi, rotondi e bassi e facevano saltare il contenuto alzandolo in balia del vento. Ed ecco il miracolo: la pula, leggerissima, la portava via il vento, la alzava e la faceva volare alta e poi lontana, i chicchi, più pesanti, restavano nel vassoio. Ci voleva maestria, le vecchie insegnavano alle giovani. In quel momento tutto era luccichio di oro, i bambini ridevano e saltavano per acchiappare le pepite, ma senza avvicinarsi molto, ai margini del volo, perché la pula poteva ferire gli occhi e il respiro. Le mamme chiamavano preoccupate.
Ad tratto, il vento si era alzato un po’ più forte, la Bruna era corsa nel mezzo al volare della pula, tappandosi occhi e bocca, ed era rimasta lì qualche secondo, in mezzo al luccichio, con le compagne che la chiamavano, ma che cercavano anche di far volare ancor di più la pula. Lei aveva alzato le braccia al cielo, con i capelli dorati al vento. Fu in quell’istante che sembrò circondata da stelle e lucciole, stagliata nel sole, che lui, Angelo, decise di sposarla. Glielo avrebbe detto, promise a se stesso, più presto possibile, magari al maturare dell’uva.
Questa immagine tormentava Angelo. A ripensarci avrebbe voluto essere lì con lei, in mezzo a quell’oro volante. Certo l’avrebbe abbracciata e baciata, anche davanti a tutti.
Venne l’ora del pranzo, ma si mangiava poco a pranzo per poter lavorare ancora. Fu distribuito pane, formaggio, vino, poco, e acqua in abbondanza. La vera festa era la sera, al calar del sole, sfiniti dal lavoro iniziato al mattino presto. Si cenava verso le cinque del pomeriggio, ma era come un grande pranzo.
Bruna era tornata ai fornelli con altre donne. Il ragù di anatra era pronto, avevano spianato la pasta e l’avevano tagliata a strisce grandi, i maccheroni, i conigli erano ad arrostire nel forno, dove la mattina avevano già cotto il pane, insieme alle patate arrosto. Quante patate avevano sbucciato! per trenta persone! non finivano mai anche se loro, le donne in cucina, erano dieci. Avevano apparecchiato per venti, le donne no, non avrebbero potuto stare sedute perché dovevano servire a tavola. Una tavolata come ad un matrimonio, sull’aia, metà sotto il pergolato e metà fuori, che erano in troppi.
Mimmo abbaiava correndo su e giù per farsi vedere e sentire, fece le feste a tutti per mezza giornata poi si mise in un angolo a dormicchiare e non si mosse più stordito com’era da tutta quella confusione.
Passò Settimio con il carro tirato dai buoi che andava a caricare i cesti allineati vicino all’ultimo filare per portarli vicino ai tini dove le ragazze stanotte e domani avrebbero ballato, avrebbero fatto ribollire l’uva e il sangue dei giovanotti.
“Anche il mio ribolle” pensò Bruna che guardava da lontano Angelo che si era tolto la camicia e appariva tutto abbronzato e muscoloso.
Bruna e Maria, la sua migliore amica, saltarono ridendo sul carro, dietro, e si lasciarono andare al dondolio e agli scossoni sussurrandosi sciocchezze negli orecchi: quanto era bello quello, quanto era brutto quell’altro, come era ingrassata la Caterina. Poi saltarono giù e aiutarono a caricare i cesti e tornarono con il carico che già profumava di mosto perché i grappoli erano stati al sole e già maceravano.
Venne l’ora del Vespro e si vide la nonna che pregava come sempre a quell’ ora. Più tardi l’Agnese e l’Agata suonarono i coperchi battendoli insieme per chiamare tutti alla cena.
All’inizio c’era un certo imbarazzo. Si erano lavati le mani e il viso alla fonte del podere, si erano rassettati alla meglio gli abiti scuotendoli dalla polvere e si erano seduti. Gosto alzò il bicchiere pieno di vino fresco della cantina e, mentre tutti lo guardavano, disse forte: “Alla vendemmia, al vino e viva l’Italia!” Ci fu un applauso di mani e anche verbale e si dette inizio ai festeggiamenti cominciando dai maccheroni. Ci furono battute, risate, prese di giro e poi lentamente si fece sera ed iniziarono i canti. Settimio aveva la fisarmonica, cominciò a suonare e si ballò.
Naturalmente Angelo invitò Bruna a ballare, ma non subito. Prima ballò con la Marisa, poi con la Rita, poi con la Bianca. La Bruna fece due o tre balli anche lei coi giovanotti che erano lì, ma era triste e arrabbiata. Fu così che quando Angelo le chiese di ballare quasi svenne. Sentì il braccio di Angelo cingerle la vita, dapprima si ritirò un poco, sentiva anche l’imbarazzo di lui, poi piano piano i corpi si avvicinarono, si strinsero, ma non parlarono mai. Fu al terzo ballo, ed era già buio, che Angelo avvicinò il viso a quello di Bruna.
Il giorno dopo le donne recitarono il mattutino e iniziò la vendemmia, oggi avrebbero finito. Angelo vinse la gara dei cesti. Il premio consisteva in un applauso generale e un bacio sulla guancia da una delle ragazze che il vincitore poteva scegliere. Naturalmente questo premio era fatto apposta per scoprire le simpatie femminili di chi vinceva e che da allora non avrebbe avuto più pace, avrebbe dovuto sopportare battute, scherzi, allusioni da parte degli amici toscanacci.
Così Angelo scelse la Rita e non la Bruna. La Rita fra tutte era la più …, anzi la meno carina, Angelo sperava così che Bruna non si dispiacesse, che capisse che voleva salvaguardarla da prese di giro, da frizzi e lazzi. A Bruna sembrò di capire lì per lì, ma poi il tarlo del dubbio e della gelosia si insinuò nella sua mente, si fece scura in volto, stette lontana da Angelo tutto il giorno. Lui la cercava con lo sguardo e lei si girava da un’altra parte.
Il lavoro di vendemmia era finito e iniziò quello della spremitura dell’uva nei grandi tini.
Settimio si mise alla fisarmonica, le donne entrarono nei tini e cominciarono a saltare e ballare, a piedi nudi, con le gonne alzate perché non si sporcassero, stavano per mano, in cerchio, poi si lasciavano e si riprendevano, il succo dell’uva così pestato e strizzato, usciva copioso dal tino a riempire contenitori dove avrebbe fermentato per poi diventare vino.
Forse fu l’odore del mosto che penetrava nelle narici di Bruna, forse fu quel saltare e ballare nel tino, con l’uva sempre più schiacciata e liquida, cominciò a girarle la testa e rideva, rideva, ubriaca di sole, del profumo del mosto, degli sguardi che si scambiava con Angelo.
Ci fu di nuovo la cena e poi ci furono i balli, ma Angelo non ballò mai con Bruna che era ancora scalza e con la gonna che lasciava vedere le gambe fino al ginocchio.
Poi venne la notte, una notte calda e umida, carica dei profumi del giorno. L’odore del mosto riempiva l’aria e si mescolava con quello del letame.
Angelo prese per mano Bruna, ancora scalza, e la trascinò dove la notte li nascondeva agli altri. La abbracciò con passione ricambiata, le avvicinò la bocca all’orecchio e le chiese: “Mi vuoi sposare?” Lei disse “Sì”. Per la prima volta si scambiarono un lungo bacio. E per la prima volta fecero all’amore con nelle narici il profumo del mosto e del letame e negli occhi il luccicare dorato della pula.
L’anno dopo tornò il tempo della mietitura e Angela e Bruno si sposarono nella Chiesa di S.Agnese al mattino presto, con tutti gli amici presenti, con abiti da lavoro. Finita la cerimonia andarono tutti insieme al podere di Gosto giù per la strada in discesa. La mietitura era iniziata il giorno prima, anche Angelo e Bruna avevano lavorato, non avevano potuto esimersi. Tutto risplendeva di oro e c’era un profumo nell’aria … un profumo da far girare la testa. Ad Angelo e Bruna girava davvero la testa. Lei si tolse il vestito da sposa, un tallier grigio perla che lei stessa aveva cucito e Angelo si tolse la giacca e il panciotto che gli aveva cucito l’Agata, la mamma di Bruna. La gente applaudiva, scherzava, li abbracciava. Angelo si mise al lavoro con a fianco Bruna. Erano circondati da spighe bionde, dall’oro raffinato dei loro granai, dall’oro che sarebbe diventato pane nei forni infuocati dell’inverno. Angelo si fermò, attirò verso di sé la Bruna e così, fra gli amici straccioni che applaudivano, quasi tutti reduci della grande guerra, strinse a sé la Bruna e la baciò senza vergogna con amore, disperazione e speranza.
Da Angelo e Bruna nacquero mio zio Pietro, falegname, e mia madre Maria, sarta. Mi capita a volte di sentire nelle campagne, specialmente nel modenese, l’odore caldo del letame, ma non mi succede più, ormai da decine di anni, di vedere la pula che brilla al sole così come la vedevo da bambina quando andavo dai parenti per la mietitura. Ancor oggi, però, rispetto la sacralità del pane. Non ho più sentito l’odore del mosto, ma amo l’allegria del vino e il suo profumo.
Lucia Focarelli Bugiani
Complimenti..l
Grazie!