L’umanità al tempo delle pandemie: “La peste” di Camus e il Covid-19
La realtà che in questo ultimo mese stiamo vivendo mi ha portato a estrarre dalla mia libreria una delle più famose e inquietanti opere della letteratura mondiale di tutti i tempi, “La peste” di Albert Camus: calarsi nella ordinaria “Orano” città algerina assalita da un morbo pestifero nel 194… non è molto diverso che calarsi nella Codogno, Bergamo o Wuhan dei nostri giorni….
L’opera è una metafora di quella spaventosa “epidemia” che, negli anni quaranta, dilagò in Europa con il nome di nazionalsocialismo (con tutti i sottoprodotti nefasti che ne conseguirono). Oggi dopo ben 70 anni dall’ uscita del libro la chiave di lettura è, come dire, “più alla lettera” ma non per questo meno inquietante e profetica, ancor più il suo ammonimento per qualcosa che è accaduto e di cui le generazioni future devono ben guardarsi di replicare, siano questi rigurgiti nazisti o virus pandemici sottovalutati. Si perché’ l’ emergenza sanitaria ritorna a ricordarci quanto siamo esposti a nuovi e invasivi virus patogeni e come la loro diffusione sia in grado di modificare radicalmente, come accade ad Orano, rapporti interpersonali, relazioni, vita culturale, società, economia e diritti/doveri; ma chi avrebbe immaginato che, non una singola città, ma il mondo intero ….sarebbe stato alla merce’ di tutto questo, diventando un enorme, incredibile “lazzaretto”?
“La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo”. Tutto inizia da questa insignificante e insolita informazione….; poi però l’attenzione passa alle persone: la prima è Michel, portiere del condominio in cui era stato trovato il topo morto. Da ora in poi l’escalation è inarrestabile e, come abbiamo vissuto in questo mese di marzo 2020, per lungo tempo si evita di chiamare con il proprio nome ciò che temiamo….peste o pandemia…..forse per non richiamare alla mente sofferenze e paure di tempi passati che siano questi la prima meta del trecento del Boccaccio oppure i primi anni del terzo millennio (2003 – SARS); le istituzioni, con piedi di piombo e in modo serrato e sempre più stringente, dettano le disposizioni a cui i cittadini devono attenersi… vengono, a fine giornata, emessi i bollettini dei contagiati e dei decessi, numeri fonte di sconforto e di speranza….. Stiamo parlando dell’opera letteraria o di cosa accade oggi? Voi cosa dite?
Albert Camus, con straordinaria percezione e seguendo la progressione degli avvenimenti, ci descrive la psicologia dei protagonisti e delle masse umane che si muovono in una situazione tragica in cui prevale la paura di esser contagiati, ma al tempo stesso ci si sente malvisti dai sani ; spesso padrona è l’afflizione di essere separati dai propri affetti e di non rivederli….neppure di poter dar loro l’estremo saluto… perché le condizioni igieniche e il precipitare degli eventi non lo permettono…;
l’angoscia alla vista della fila di camion militari che lascia Bergamo per portare il suo carico di morte fuori regione non è molto diversa dall’angoscia alla lettura della descrizione che troviamo nell’opera: “Ebbene quello che caratterizzava, in principio, le cerimonie era la rapidità, tutte le formalità erano state semplificate e, in maniera generale, la pompa funeraria era stata soppressa…….un ampio ripostiglio conteneva i feretri. Nello stesso corridoio la famiglia trovava un solo feretro oramai chiuso …si facevano firmare le carte al capofamiglia. Poi si caricava il corpo in un automobile: un vero furgone o una grande ambulanza trasformata. Alla porta i gendarmi fermavano il convoglio, apponevano un timbro sul lasciapassare ufficiale senza cui era impossibile avere quello che i nostri concittadini chiamavano l ultima dimora, poi scomparivano, e i veicoli andavo a mettersi presso un recinto…..In tal modo tutto veramente si svolgeva con il massimo di rapidità e col minimo di rischi. E di certo, almeno in principio, è chiaro che il naturale risentimento delle famiglie ne fosse urtato. Ma in tempo di peste sono considerazioni di cui non è possibile tener conto: tutto si era sacrificato all’efficacia.”
Nel dolore e nell’ orrore Camus mostra le vite delle persone con le loro mille sfaccettature, dove ognuno risponde alla tragedia a modo suo, al suo sentire, ribadendo che negli esseri umani, presi singolarmente, c’ è più da apprezzare che da disprezzare.
E allora riconosciamo Michel il portiere che muore inconscio di cosa accade realmente e il suo unico problema è il topo morto nel suo condominio;
Il dr Bernard Rieux che si prodiga nel combattere il morbo senza risparmio e con tutti i rischi perché questo è il da farsi , combattere il contagio, impedire anche una sola morte, è questo il fine ultimo della giornata;
Rambert che vuole raggiungere la sua “amata” fuori dalle mura della città appestata e si adopra con tutti i mezzi, legali e non, per evadere ma poi cambia idea e trasporta corpi giorno e notte insieme al dottore;
Padre Peneloux, che all’inizio interpreta la peste come un flagello divino ma poi unendosi ai volontari si prodiga tra letti infetti e corpi inermi, fino a morire per il morbo;
Castel , medico più anziano del dr Rieux, che si spende nel tentativo di creare un vaccino per i malati;
Cottard, conscio che senza la peste sarebbe già stato arrestato e che lucra sui beni di prima necessità durante l epidemia e che perciò si rifiuta di aiutare a debellarla;
Nella massa di umani ognuno pensa che il morbo toccherà altri (si dai… perché proprio a me?) indolenti alla chiusura della città e desiderosi di evadere fino a quando non divengono vittime della malattia e, in ultimo, rassegnandosi al proprio destino; gli uomini si lasciano andare agli istinti più feroci e irrazionali con i cuori induriti, camminando nei lamenti come se “fossero stati il naturale linguaggio degli uomini”. Questo dovrebbe aprire una riflessione sul concetto di responsabilità individuale e collettiva, su ciò che l’altro è per me o, meglio, cosa sono io per l’altro, prima di tutto come rispetto dell’altro anche in assenza di una legge o di una norma specifica. Questo a maggiore ragione in una società complessa ma, oserei dire, ancora più in una società “globalizzata” poiché “Un battito di ali di farfalla a Pechino produce pioggia invece che sole a New York (cit.)”
L’epidemia di coronavirus passerà. Lascerà una realtà completamente deformata, è inevitabile, lascerà vittime, come non è giusto che sia. Ma soprattutto lascerà un senso di amarezza sulla capacità di reazione della società umana, reazione sempre inadeguata quando i meccanismi del passato e della storia sono sempre uguali a se stessi :
“ascoltando infatti i gridi di allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’ allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore ne scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe il giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.”