Si chiamava Giacomo come il babbo e come il nonno e come il babbo del nonno, perché, in quella fattoria, immersa nella campagna toscana, al primogenito maschio veniva dato il nome Giacomo. Da sempre.
Mino, come lo chiamavano tutti, era un bambino gracile, le spalle un po’ ricurve, gli occhi che parevano due spilli, il ciuffo nero sempre scapigliato e due stecchi di gambe che reggevano un corpo esile e minuto. Aveva però delle mani bellissime che facevano pari con il resto. Lunghe, affusolate, bianche, proporzionate. Sono mani da pianista dicevano. Mino però il pianoforte non l’aveva mai studiato, conosceva molto meglio l’orto dove spesso correva tra filari di pomodori d’estate e piante di cavoli e verze d’inverno o la stalla dove a volte osservava Gino, uno degli uomini della fattoria, pulire le bestie e dove veniva tenuto il vecchio cavallo belga. Ombra era un cavallo da tiro dal mantello color castano, criniera folta, garretti enormi e pelosi, tanto vecchio che non aveva più la forza di lavorare. Dormiva e mangiava, poi talvolta nitriva, ma lo faceva in maniera svogliata e stanca. Nient’altro. Aveva il corpo tozzo e possente, con un gran ventre e il pelo lungo, una volta instancabile nei lavori più pesanti, adesso era diventato solo un peso per la fattoria. Un costo in più da sostenere. Mino amava Ombra e Ombra lo ricambiava. Il ragazzo, tornato da scuola talvolta gli portava una carota o uno di quei biscotti al burro che faceva la mamma e stava lì a guardarlo mangiare, appoggiava la fronte al muso della bestia e gli parlava dolcemente. Il cavallo restava per un po’ immobile poi sbuffava e ricambiava quel gesto d’amore dondolando la testa. Si capivano.
«Guarda Maria, guarda qua» fece l’uomo rivolgendosi alla massaia «Bisogna tagliare un po’ le spese. Inizieremo col vendere Ombra. Quel cavallo è vecchio ormai, mangia, beve e dorme. Resa niente»
Il babbo e la mamma erano seduti al tavolo di marmo della cucina. Sul marmo bianco una distesa di conti, fatture, ricevute di bestiame, piccoli pezzi di carta pieni di cifre e un libretto colonico posato sul giornale di fattoria chiuso da un nastro di stoffa che, molto tempo prima, doveva essere stato di colore bianco.
«Vuoi scherzare? Non dirai mica sul serio?» rispose la moglie «Mino non ha amici, ha solo quel cavallo. Morirà di crepacuore!»
«Dobbiamo farlo. Questi sono i conti da pagare, maniscalco, veterinario, la crusca e la semola al Consorzio. Quella bestia è solo un peso, una rimessa, un debito continuo. La prossima settimana chiamo il macellaio.» replicò risoluto l’uomo spostando i fogli verso la moglie e la discussione finì.
Mino da fuori si era bloccato ad ascoltare le voci dei genitori prima di salire lo scalino di pietra che immetteva nella grande cucina. Infine entrò facendo finta di niente, però il cuore aveva iniziato a battere forte e gli occhi gli si erano riempiti di lacrime.
I giorni passavano lenti in una caligine estiva che non dava tregua, ma l’abbondanza e la varietà dei raccolti era sempre motivo di gioia, quell’estate invece per Mino era diversa dalle altre, aveva perso il sorriso e, per quanto potesse sembrare impossibile, era diventato ancora più magro.
Quel dopopranzo il ragazzo sentì voci confuse giù nell’aia. Lontane. Si girò intontito dal sonno nel riverbero del sole che, in quel denso pomeriggio di giugno le imposte socchiuse lasciavano entrare. Rimase bocconi sul letto con le braccia spalancate e la testa girata verso quelle lame di luce che tagliavano la penombra della stanza, tendendo l’orecchio a quei suoni familiari. Le voci di incitamento degli uomini accompagnavano il rumore degli zoccoli sui lastroni di pietra che costeggiavano la pergola di uva salamanna. “Allora è vero. È proprio vero quello che aveva detto il babbo” pensò. Quello che aveva sperato con tutto il cuore non avvenisse mai, stavano facendolo quel pomeriggio. Portavano via Ombra. L’avevano venduto. Si alzò di scatto e si avvicinò alla finestra. Ad imposta chiusa lentamente ne aprì un’anta. Un refolo di vento caldo gli mosse i capelli e il sole accecante gli fece chiudere gli occhi abituati alla penombra. L’aria rovente confondeva le immagini sospese e tremolanti d’afa. Di pali e di panni stesi. Di pula e di foglie secche che giravano in mulinelli veloci sulla pietra e il cotto dell’aia. Di sterco e di letame di vacca nella concimaia. Tutto si stagliava contro misteriose ombre e porte buie. Dismesse. Sbilenche.
Il macellaio era in prima fila e tirava la bestia per la cavezza che sembrava rompersi da un momento all’altro tanto era tesa. Il babbo e Gino ai lati dell’animale che lo incitavano e lo guidavano. Ombra stava salendo rassegnato sulle assi di legno che facevano da rampa al furgone. Mino avrebbe voluto scendere ed urlare che non lo facessero e che lasciassero stare il suo amico, ma non si mosse, guardò invece dalla parte delle colline lontane immerse nell’azzurro caliginoso e slavato del cielo. Inghiottì un grumo di saliva appiccicosa, rimandando dentro le lacrime ed insieme alle lacrime sentiva scorrere uno sconfinato dolore che cresceva sempre di più e sembrava senza fine.
I giorni che seguirono Mino li trascorse in maniera apatica e distaccata, niente lo interessava. La prima ad accorgersi del cambiamento fu la madre che una sera, dopo aver cenato, seduta in cucina a rammendare, disse rivolgendosi al marito: «Mino ha qualcosa, ogni giorno mi sembra sempre più triste ed è anche dimagrito, non fischietta, non canta più, sta tutto il giorno da solo intorno l’orto o a dormire in camera sua. Quando gli domando che cosa ha non mi risponde o al massimo mi dice «Niente mamma. Niente»
«Ascolta Bastiani» continuò la donna risoluta, chiamando il marito col cognome e posando ago e filo sul tavolo «Devi assolutamente ricomprare un cavallo che possa sostituire Ombra nel cuore del nostro bambino» L’uomo sapeva che la moglie quando lo chiamava in quella maniera non ammetteva repliche. Rimase in silenzio per lunghi e interminabili istanti che alla donna sembrarono secoli, poi soffiando sulla punta incandescente del sigaro acceso si passò la mano callosa sul mento scuro di barba e disse: «Va bene domani è il giorno del Santo Patrono e tutti fanno festa, ma dopodomani andrò in paese da Stinchi, il mercante di cavalli, e comprerò un puledrino».
Nel tardo pomeriggio di quella rovente giornata agostana dedicata a San Genesio, l’aia della fattoria, era come sempre deserta. Dopo aver riposato, gli uomini giocavano a carte sotto il fresco della pergola. Sul tavolo avevano messo i bicchieri, il fiasco del vino lo tenevano all’ombra sotto un cencio bagnato per mantenerlo fresco. Mino in casa, nella penombra della stanza, sentiva discutere sulla partita.
«Bastava più attenzione per sapere dov’era il carico di fiori» fece il babbo rivolgendosi a qualcuno.
«Macellaio, tu dormi, sei solo bono per tirare il collo a bovi e cavalli ma di carte non te ne intendi» rinforzò una voce che il ragazzo riconobbe essere quella di Gino.
«In questa maniera passa anche la voglia di giocare, bevi dai, intanto ubriaco o non ubriaco di punti a briscola non ne fai»
Mino sentì uno scroscio di risate forti, sguaiate e il rumore di sedie smosse che coprirono per un attimo il frinire delle cicale sugli olmi intorno alla fattoria.
“Cattivi” disse piano, poi si diresse versa l’altra stanza.
La porta della camera di fronte alla sua aprendosi cigolò, il ragazzo trattenne il respiro poi in punta di piedi si mosse verso l’armadio dei genitori dove il padre teneva la doppietta da caccia. La staccò lentamente dal gancio, era alta quasi quanto lui.
«Partita» si sentì urlare Gino.
Un colpo secco spaccò il silenzio e l’eco assordante risuonò per tutta la casa. Per un istante Mino percepì un lampo di luce intensa vicino alla finestra squarciare il buio, poi lo vide entrare adagio e avvicinarsi a lui. Ombra sbuffò in maniera sommessa, quasi un sospiro, scosse la testa enorme ed appoggiò il muso alla fronte di Mino.
Il ragazzo sorrise felice stringendogli forte la criniera pelosa, poi, il gorgo scuro della “notte” risucchiò entrambi.
Bellissimo tragico e commovente racconto. Hai trovato parole scarne ed essenziali per la narrazione, tipico del tuo stile che amo molto.
bello, anche se triste
Tragico e ammaliante allo stesso tempo.